«Tu sei bella, amica mia, tu sei bella davvero. Occhi come colombe, capelli come caprette che scivolano giù da un monte. I denti sono bianche pecorelle appena uscite dal fiume...». È così, attraverso le parole del Cantico dei Cantici, che Shimek ha sempre pensato a Buzi, la nipote quasi coetanea che è stata accolta in casa dopo la morte del padre. Shimek e Buzi sono cresciuti insieme, insieme sono andati al tempio per la celebrazione delle cerimonie rituali e insieme (in un paesaggio agreste che sembra un doppio perfetto di quello del Cantico dei Cantici) hanno fatto lunghissime passeggiate, nel corso delle quali Shimek, nascondendo a Buzi la sua passione, le ha raccontato storie meravigliose. Poi, disubbidendo al padre, è partito per la grande città. E quando torna, è solo per scoprire che è troppo tardi, che Buzi sta per sposare un altro e non gli apparterrà mai. A Shimek non resta che ricominciare – con le stesse parole, con lo stesso ritmo incantatorio di una preghiera – a raccontare la storia dall’inizio, come chiudendola in un cerchio di ripetizioni infinite. Nell’evocare questo amore archetipico, che unisce in una sola, brevissima vicenda la felicità più acuta e il senso di una perdita insanabile, Sholem Aleykhem si rivela capace come pochi di toccare le sensazioni elementari e di trasferirle senza ostacoli sulla pagina – e mai ne va perduta l’oscura forza.
I primi due capitoli del Cantico dei Cantici apparvero a Pietroburgo nel 1909, il terzo e il quarto due anni più tardi sulle pagine di un settimanale yiddish di New York. |